Un misero orticello

UN MISERO ORTICELLO…

Rileggendo la seconda introduzione di “Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio (Ed. Anarchismo, 2004)”, un passo appare particolarmente significativo nel tratteggiare la costernante miseria esistenziale del semplice tirar a campare quotidiano.

Di fatto non è facile rendersi conto di quello che spinge la forza collettiva, di cosa consente bene o male all’umanità di superare le prossime ventiquattr’ore e poi andare ancora avanti. Un equilibrio precario di legami fasulli e fedi mal riposte? Senza dubbio anche questo, ma anche qualcosa d’altro. Il miraggio della propria vita vissuta e non solo vista dal di fuori, mentre le palpebre si chiudono per il sonno nella metropolitana del mattino. L’amore eccessivo, battiti del cuore e possesso e essere posseduti, mentre la sera si torna a casa troppo stanchi per qualcosa di diverso dalla solita carezza prima di girarsi dall’altra parte. Un odio radicale, vero, figlio e padre dell’amore, capace di spremere tutta l’adrenalina in una volta, non i soliti surrogati dello stadio o dell’ubriacatura di fine settimana. La bellezza di un sogno sospeso fra il niente della musica, un pensiero che vola subito via fino a restare soltanto sentimento sempre inappagato e sempre risorgente, non gli stereotipi da discoteca o i corrispondenti surrogati intellettuali di chi ascolta sempre lo stesso disco, naturalmente il migliore soltanto per lui. Tutto ciò vive una vita possente all’interno della forza collettiva, ma non è univocamente mezzo di progresso, per non parlare di quell’emancipazione che nessuno sa bene cosa sia visto che nessuno sa da cosa ci si dovrebbe emancipare (Chi non conosce i tristissimi risultati dell’emancipazione femminile?). Al suo interno, in un vorticoso via vai di contraddizioni e ripresentazioni, di modelli buttati lestamente e di riscoperte vecchie di secoli, si muove il mastodonte produttivo, il connubio artificioso delle cose fatte, del fare bene oleato, degli operai con il loro lavoro, delle massaie con i loro frugoletti e la cucina non più economica, dei pensionati con la loro coda mensile alla posta nell’attesa fremente di godersi il prossimo scippo. Tutto ciò ha un nome vero: si tratta dell’esistenza, dell’esistenza quotidiana che tutti meniamo in un modo o nell’altro. Ed ha un nome usurpato: “vita”. Molti si gonfiano la bocca con quest’ultimo nome ottenendo come risultato di fare confusione. All’interno del mondo produttivo che tutti ci ospita, anche coloro che sono dotati di corde vocali forti da rintronarci le orecchie, nessuno“vive”, tutti esistono. (Alfredo Maria Bonanno, Trieste 2002).

Che si arrivi ad una, spesso e volentieri soltanto frammentaria a dire il vero, presa di coscienza di questo desolante travaglio non è del tutto impossibile, persino ora. Ma, oltre all’individuazione di quelle cause “oggettive” e soggettive che abbiano reso possibile essere arrivati così in basso, quel che più difetta è la capacità di reagire. Nemmeno tanto poi di attitudine o di capacità, intese come sforzo conseguente ad una forma di consapevolezza, è giusto parlare, quanto piuttosto di quell’istinto ribelle che sembra marcire nel suo ultimo letargo, giudicato indegno persino del canto del cigno.

Tastare con mano l’inadeguatezza vitale del ripetitivo scorrere dei nostri giorni, ossia una spirale ossessiva di corse al lavoro, di paure ad ogni angolo della strada, di rapporti fondati sul valore di scambio e del raccapriccio davanti allo specchio, è, si, un primo affrancamento dall’alienazione moderna. Ma è ben poca cosa dal momento che non trova il coraggio di un balzo in avanti, né di prendere per mano quelle inconfessabili passioni di distruzione e di rabbia. La comodità e il falso timore di perdere qualcosa ci incatenano ancora i polsi. E quindi che potremmo mai correre il rischio di perdere davvero? La schiavitù della sveglia? La birra del sabato sera? Pochi minuti di sesso a-passionale? Il camminare sulle strade lastricate di rinunce? Insomma, la “libertà” di potersi permettere un affitto e qualche svago dis-impegnato? Ovviamente, e banalmente, si.

Eppure, anche a fronte della bassezza che caratterizza un così sciatto spaccato, è proprio questo che l’individuo “comune” tende a difendere coi denti. Non che qualunque istinto di rivolta gli sia estraneo, ma viene, di volta in volta, violentemente soffocato davanti a quella prospettiva “sconosciuta” che può assumere la forma del carcere, della reclusione psichiatrica, dell’isolamento sociale e della rinuncia a “divertimento” e lavoro. La paura di non potersi permettere più un tetto, di perdere stima davanti alle pallide facce inespressive che contornano la routine, di farsi rubare il gruzzoletto messo da parte dopo anni di sfruttamento pulsa nello stomaco, frena le urla e distende i nervi davanti ad ogni sopruso.

Per questo continuiamo a tollerare le angherie della polizia, continuiamo a regalare intelletto, sogni e braccia in qualche ufficio. L’interiorizzazione delle dinamiche del dominio segue all’accettazione delle regole e del ricatto. In cambio, però, possiamo dedicare quelle rosicate ore di “tempo libero” (sempre che il sonno non prevalga dopo 40 o 50 ore di sgobbo settimanale) alla operosa costruzione del nostro microuniverso ipocrita – rosicato all’interno di una esistenza miserevole – il quale assume il ruolo di nido e di riparo. Una grotta dove crogiolarsi, felici della propria schiavitù.

La scienza del controllo, costruita ad arte sul baratto tra vita e sopravvivenza, ha soppiantato la forza bruta nei nuovi assetti repressivi del dominio. Siamo controllati da quelle stesse condizioni esistenziali che meticolosamente facciamo nostre.

L’individualità, faro e spinta rivoluzionaria, si ritrova annientata, stuprata e sostituita da quell’impostore creato dal potere: il singolo a-specifico che procede a tentoni tra schiaffi e succedanei di vita. Tra questi surrogati, possiamo annoverare anche il giocare alla “rivoluzione”. Nei pochi ritagli di tempo ci si può anche arrischiare, sempre seguendo a testa bassa i binari del consentito (che, a volte, può pure coincidere momentaneamente con l’illegale), a inscenare sterili forme contestative e verbose proteste. Magari forti del numero, celare la paura e l’inadeguatezza sotto una maschera da spacca-mondo. Resto poi tornare, quando il numero si assottiglia e si torna alla propria solitudine, il solito schiavo rassegnato ed abbruttito dai vizi e dalle dipendenze dispensate dal capitale. Come al solito, la consistenza quantitativa si costruisce sulla bassezza qualitativa. Per non parlare poi della cocente sorpresa dello scoprirsi ignobili auto-elargitori di false morali e comode spezzettate ideologie. Gloriata purezza che va in frantumi sotto i colpi di una qualsivoglia autorità. Incensazione di se stessi che si mostra, finalmente, come un abortito sforzo di darsi quel coraggio necessario per combattere e che, al contrario, non è altro che boriosa ostentazione di manchevolezza.

Ma bisogna andare avanti… ecco lo slogan dei defraudati!

Si possono buttare via ore della propria “vita”, magari coll’amaro in bocca, ma va bene così. È pur sempre meglio di niente, o del carcere. Perché buttare tutto a mare per dei sogni, bellissimi certo, ma irrealizzabili? Meglio puntare in basso ed accontentarsi di quello che ci viene concesso. Non ne vale la pena, si dice, di perdere tutto per sogni utopistici. Possiamo pure gridare al vento contro la malvagità di questo mondo, ma perché doverci mettere di traverso, perdendo anche quelle poche “gioie” rimaste? Il regno della ragione auto-punente sia glorificato allora!

Perseveriamo a tenere la bocca aperta ed i pugni in tasca, urlando contro chi possiamo schiacciare facilmente ed inutilmente, scegliendolo accuratamente tra le stesse file di sfruttati alle quali apparteniamo, e arrendendoci docilmente a chi ci schiavizza. Compassionevoli bulletti, in balia di qualunque divisa e cartellino, procediamo nella guerra tra poveri sventolando la bandiera bianca davanti alle truppe cammellate.

Ma per chi si fosse davvero stufato di tutto e preferisse tuffarsi nell’oscuro oceano delle possibilità rivoluzionarie? Che può fare chi decide di accettare il rischio di una vita conflittuale e che non si perde d’animo davanti alle fumose incertezze della lotta liberatoria senza quartiere?

Resta solo un’indicazione allora: scegliersi per compagni, anche se pur’essi dilacerati dalle stesse contraddizioni esistenziali del gregge silenzioso, chi meno sproloquia e più si organizza per l’attacco. Come riconoscerli? Sapendo fiutare la fierezza del conflitto perenne con gli affamatori, la rabbia mai placata (ma soppesata sulla bilancia del danno distruttivo nei confronti del dominio) e il rifiuto di ogni dialogo e compromesso con i massacratori armati al soldo del potere.

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