Compassione?

La capacità dell’uomo di commettere barbarie è pari solo alla sua fantasia, sosteneva un immaginario agente dei servizi di un film in un celebre film.

Approssimativo ma più che verosimile. L’ “innata bontà dell’uomo” è un’illusione cristiana, un salvacondotto per i rassegnati. E fin qui, nulla di nuovo.

Preso atto della mancanza “innata” di “buoni” sentimenti nell’essere umano, viene da pensare al significato della solidarietà che spesso sventoliamo.

Non parlo della solidarietà tra affini, che non ha qui bisogno di ulteriori spiegazioni.

Accenno alla solidarietà o vicinanza verso chi è oppresso.

È naturale che, odiando lo sfruttamento, si debba essere vicini, solidarizzare, con chi è vittima e subisce questo sfruttamento? Certamente per molti la risposta è affermativa. A dire il vero, questa mi è sempre apparsa come una domanda trabocchetto.

Senza rientrare in discorsi ritriti, l’oppressione è giocoforza possibile e attuabile dal momento che viene permesso di esercitarla, dal momento che la si subisce. Non è forse allora una barbarie, e delle peggiori poiché rivolta contro se stessi, accettare di essere sottomessi? Fare un torto così grande alla propria dignità non pone, più o meno, sullo stesso gradino di chi si guadagna il pane sulla pelle altrui? O, addirittura, non si è ancora più barbari?

Essere solidali con chi accetta, in qualsivoglia maniera, dalla più blanda alla più sfacciata, la propria oppressione quale senso dovrebbe avere per chi detesta il predominio?

Ecco il guaio. Troppo spesso si tende a identificare come un “compagno”, o potenziale compagno, chi versa in situazioni di esclusione o marginalità sociale, come se bastasse questo suo essere sottoposto per farne un refrattario e un combattente. Non ci si può fermare un attimo a riflettere che quello che subiamo lo permettiamo. Che ne siamo, direttamente o meno, complici e fautori?

Ritorniamo allora all’assunto cristiano della bontà umana, per cui lo sfruttatore è il bruto e lo sfruttato l’agnello. E come non parteggiare per quest’ultimo? No! L’uomo non è una creatura buona, docile e mansueta verso gli altri. Il boia non ha bisogno di essere spiegato, ma la vittima rassegnata non ha giustificazioni che non siano l’accettazione o la prospettiva di sostituirsi al proprio carnefice.

Lo starnazzamento sulle “condizioni oggettive” degli sfruttati come possibili compagni stanno a zero. Chi accetta la propria miseria disdegna la libertà. Chi non lotta per distruggere colui che lo affama ne è il più fedele complice.

Se, fosse anche solo istintivamente, osteggiamo solo il potente che schiaccia e siamo presi dalla pietà per chi è depredato, non riconosciamo alcuna volontà ribelle all’individuo. Non credo ci si possa concedere il lusso di poter considerare come affini persone che versano in condizioni di miseria e che non muovono un dito per cambiare la propria esistenza. E nemmeno se accennano a qualche velleitaria aspirazione di rivalsa, qualora fosse essa passeggera o foriera di una volontà di entrare nel club dei massacratori.

Temo che ci si voglia bendare gli occhi. Fare orecchie da mercanti e perseverare su strade cieche ma già battute. Continuare con il “lavoro” quotidiano di assistenza ai sottomessi sperando in una loro redenzione, e magari auspicando di esserne noi gli autori.

Ma di che? Basta con il volemose bene a tutti i costi!

Tutta questa vicinanza ideale a chi subisce senza colpo ferire ci ha anchilosato la capacità critica. Viriamo pericolosamente verso l’assistenzialismo ai margini, senza più concentrarci verso l’attacco al potere che dovrebbe essere prima vera prerogativa. In una disperata ricerca di consenso ed accettazione esterna, si finisce per annacquare quelle idee distruttive che “dovrebbero” essere caposaldo del nostro agire.

In nome della solidarietà con chi viene messo sotto, si accetta a sua volta una condizione subalterna o da assistenti sociali. Rifancendosi all’assunto pietista della bontà degli sfruttati non se ne riconoscono le innegabili responsabilità circa il ripetersi dell’oppressione, concausata dalla sua accettazione da parte di chi la subisce.

Sarebbe da smetterla per una buona volta di fare i messia redentori. Forse, come spesso accade, il punto di partenza dovrebbe essere la propria individualità ribelle, la voglia di attaccare il dominio coi i fatti, mettendo da parte una, troppo spesso immeritata, pietà per chi mantiene la schiena piegata.

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